Giorno 18 – ÇAMLIHEMŞİN
Cambiamento totale di programma, fuga per un giorno nelle montagne! Le cose sono andate così. Superiamo Rize, ormai si contano su poche dita i giorni che ci separano al confine. Si continua a camminare a filo del mare lungo la nazionale, è scoppiato il caldo, i camion sollevano polvere. Il mondo attorno appare come ovattato dal Ramadan: tutto procede come sempre ma sembra più lento e più silenzioso, per noi anche più solitario: niente più tè offerti lungo la strada, niente più buyurun buyurun (prego prego, accomodatevi…). La presenza del tè incombe ovunque, con fabbriche del marchio più diffuso in Turchia. E mi frulla improvvisa la fantasia di lasciare per un giorno la costa e regalarci una fuga ‘turistica’ in un villaggio dell’interno di cui ci hanno decantato la bellezza.
Siamo in territorio Laz, la minoranza etnica a cui appartengono gli abitanti di qui, e penso che non si può lasciare questo pezzo di terra senza aver almeno dato una sbirciata a tutto il vasto mondo tra la costa e i monti del Kaçgar, fatto di villaggi sperduti e boschi e coltivazioni di tè a non finire e ruscelli dalle acque scroscianti e… vedremo!
Detto fatto: prendiamo dei pulmini ed eccoci qui, una serata e una notte nella pace di Çamlıhemşin, villaggetto incassato in una strettissima valle, quasi un canyon, scavato da un impetuoso e fangoso torrente, ospiti della confortevolissima öğretmenevi, in una bella stanza affacciata sul fiume, lo scroscio dell’acqua come colonna sonora. Ed è il compleanno di Nella, festeggiato così. Da domani si torna giù, al mare e alla strada.
Giorno 20 – Kemalpaşa
Anche oggi non sarebbe dovuta andare così, ma le sorprese in cammino stanno dietro l’angolo…
Breve cronaca. Ieri scendere dal villaggio in montagna di Çamılhemşin è stato un bel diversivo dalla lunga strada sul mare: nel verde, tè e tè e tè coltivato a non finire sui pendii scoscesi a lato del torrente, tanti locali (chiusi) che offrono rafting e zipline.
E dopo una ventina di chilometri eccoci di nuovo al mare, su quella strada che è diventato il nostro ormai famigliare cimento quotidiano: sta per finire, mi mancherà. Siamo proprio arrivate al fondo del Mar Nero, la sponda che si vede davanti a noi è già Georgia. Arrivando a Hopa iniziano le file interminabili di camion lungo la strada, parcheggiati per chilometri e chilometri proprio a occupare la larga banchina su cui solitamente camminiamo: fermi non so se perché oggi è domenica o per qualche altra misteriosa ragione. Alcuni camionisti ne approfittano per un bagno nel mare, altri in gruppo mangiano, altri tornano al proprio camion con le borse della spesa fatta in paese: un pezzo di vita, che immagino ben faticosa…
Contavamo di fare tappa in una bella öğretmenevi di bungalow in legno poco lontano da Hopa, per portarci un po’ avanti verso la frontiera e accorciare la tappa di domani che potrebbe essere impegnativa, e invece chiusa!!! Che fare? la sera incombe e siamo stanche. Questa volta il signore che si trova al ristorante adiacente, dove ci danno la brutta notizia, non ci aiuta per niente: ci dice ridendo di telefonare alla Meloni (forse si sente spiritoso, io lo trovo irritante: ed è così strano qui non trovare aiuto, i turchi ci hanno proprio viziato). Non resta che prendere un pulmino – i chilometri oggi sono già stati tanti – e raggiungere l’albergo più vicino. E siamo quasi alla frontiera, mancano tre chilometri circa! Sognavo un bel piatto tradizionale a base di pesce per l’ultima cena turca, e invece ci tocca un self service in un piccolo centro commerciale, una specie di fast food. Mai, in cammino, fantasticare sul futuro!
Giorno 21 – BATUMI!
Georgia! Passata la sesta frontiera da quando siamo partite da Venezia: è un’emozione! Altra lingua, altra moneta, altro alfabeto, con scritte che sembrano un ricamo. Non so più dire buongiorno, buonasera, grazie: devo imparare i fordamentali!
L’ultima moschea da una parte e la prima chiesa ortodossa dall’altra segnano il confine, e mi fa impressione: stesso paesaggio, stesso mare, stesso cielo e due diversi dei, uno di qui e uno di là (ma io sospetto sia lo stesso Dio invocato con diversi nomi…)
Dalla frontiera a Batumi è tutto uno zigzagare nel traffico dei camion, in un caldo polveroso e opprimente. Ma la sera si festeggia il traguardo con una buona cena – i locali in centro non mancano – e perfino un bicchiere di vino: doveroso, si dice che proprio in Georgia il vino sia stato inventato!
Domani si resta qui: giorno di riposo e ri-orientamento.
Giorno 23 – Kobuleti
E si cammina in Georgia, stiamo prendendo le misure di questo nuovo paese sotto una pioggerella fitta che oggi non ci ha mai abbandonato. Ieri pigrissima giornata di riposo a Batumi – ne avevamo bisogno – con visita delle attrazioni principali: la splendida piazza Europa al cui centro svetta la statua di Medea che esibisce il vello d’oro, il bel centro antico, la nuova e grandiosa passeggiata a mare con i suoi edifici moderni, i giardini, la commovente statua cinetica di Ali e Nino, opera dell’artista Tamara Kvesitadze, che racconta la travagliata storia d’amore tra un azero musulmano, Ali, e una cristiana ortodossa, Nino, protagonisti di un famoso romanzo.
Oggi primo giorno di cammino tutto in Georgia, una trentina di chilometri impegnativi ma divertenti cercando alternative al fango delle strade, attraversando il magnifico orto botanico a nord di Batumi – chilometri di verde con viste spettacolari sul mare – e avventurandoci su precarie piste a filo della ferrovia: insomma la nostra giornata da piccole esploratrici… Conclusa con la difficile ricerca – al freddo e bagnate poiché piove e la temperatura è crollata di 15 gradi! – di un alloggio a Kobuleti, piena, sì, di guest house ma in questa stagione tutte chiuse… Ma infine ce l’abbiamo fatta! Dobbiamo capire meglio come funzionano le cose qui: il bello di muoversi in nuovi territori!
Giorno 26 – Samtredia
La Georgia ci si rivela a poco a poco nella calma maestosità dei suoi paesaggi, nella sua gente discreta e gentile, nelle case sparse che non sembrano arrivare a formare villaggi (dove è un centro? Una piazza?), nei suoi cieli vasti e, venendo dalla Turchia, improvvisamente vuoti: niente canti di preghiera che riempiono l’aria, niente minareti svettanti… Camminiamo in questi giorni su tranquille strade di montagna a tornanti dentro un paesaggio bello e nebbioso, poiché il cielo è coperto e spesso piove. E fa freddo.
Difficile trovare lungo la strada luoghi dove riposare al caldo e rifocillarsi ma talvolta dietro una porta più che modesta e anonima di apre l’insperata risorsa di un ‘caffè’, cioè un locale disadorno con tavoli e sedie e una piccola cucina dove alcune donne sfornano cibi e si può avere un tè caldo o un ‘cappuccino’ liofilizzato, oltre alla gentilezza e agli scoppi di sorpresa allegria per il nostro passaggio. Angeli ci aiutano a trovare da dormire telefonando per noi a papabili guest house o alberghi. Ieri sera nella Guest house di Zaur e Rusiko la cena era un vero e proprio banchetto: la tavola imbandita con ogni bendidio, i canti a due voci di Zaur e l’amico Avto (anche io ho voluto portare dei canti, come mi è mancata la seconda voce della mia amica Renata!), la conversazione che si faceva via via più allegra punteggiata dai frequenti brindisi proposti dal padrone di casa: a noi, all’amicizia, all’amore, a chi ci vuole bene e ci aspetta a casa, ai figli e ai nipoti, alle donne belle come noi, perfino – con la mano sul cuore – ai morti. E ogni volta un giro di bottiglia per riempire fino all’orlo i bicchieri di un vinello per fortuna leggero, poiché è impressionante il numero delle bottiglie aperte e svuotate. Siamo nella Conchide, ci avviciniamo al suo centro: la storia ci aspetta domani a Kutaisi!
Giorno 29 – Zestaponi
Si riprende il cammino con un tempo radioso dopo la sosta a Kutaisi, antica capitale della Colchide, meta del mitico viaggio di Giasone che fin qui venne con i suoi compagni Argonauti per strappare al re Eete il vello d’oro, riuscendo nell’impresa con l’aiuto della figlia di questi, Medea. Raccontano questa storia lo stemma della città, dove compaiono il vello d’oro e la nave Argo, e la grande fontana – fontana della Colchide – al centro della piazza principale, una intricata composizione di acqua e figure in oro di animali che riproducono su scala gigante alcuni reperti archeologici.
Arriviamo a Kutaisi con la pioggia e il freddo, tempo ideale per visitare il piccolo museo storico, che conserva vari reperti neolitici e alcuni tesori recuperati dalle chiese e monasteri distrutti in epoca sovietica. Ieri, finalmente con il bel tempo, siamo uscite dalla città per visitare il monastero di Gelati, patrimonio Unesco, purtroppo chiuso per restauri, abbiamo potuto vederlo solo da lontano.
Ma il vicino monastero di Motsameta, raggiunto con una bella passeggiata nel silenzio di un paesaggio maestoso, ci ha rivelato tutto il suo fascino. Abbarbicato su uno sperone di roccia a picco sulla valle di un fiume e circondato da montagne, è tuttora abitato da una comunità di monaci che si dedicano alla preghiera perpetua alternandosi nella piccola chiesa. Un uomo ci avvicina parlandoci in francese: è di Tblisi, ha vissuto a Parigi e sta trascorrendo lì un periodo di rigenerazione spirituale, come fa periodicamente. Parlando del nostro progetto, sconsiglia il percorso che avevamo programmato a favore di un altro a suo parere più conveniente. Vedremo: sempre difficile capire quanto siano fondati i consigli di chi sicuramente conosce i luoghi ma probabilmente non ha pratica del viaggiare a piedi.
Pomeriggio dedicato alla maestosa chiesa medievale di Bagrati, che domina da una collina la città, e a godere delle belle atmosfere di Kutaisi, il suo centro, i suoi ponti sul fiume, la sua vita vivace. La Georgia mi sta entrando dentro a poco a poco e mi conquista: così succede a chi va a piedi e incontra non solo e non tanto le eccellenze ma il quotidiano, le piccole cose di tutti i giorni, nel bello e nel brutto, le facce, i saluti, i margini delle strade; e tutto questo finisce col creare un racconto e ti entra nel cuore.
Giorno 34 – Gori
Eccoci qui, nella città natale di Stalin, dove abbiamo visitato il museo a lui dedicato in un palazzo imponente. Fa un certo effetto vedere nelle foto testimonianze di eventi grandiosi e drammatici e insieme sprazzi di quotidiano – i tanti anonimi partecipi, in un modo o nell’altro, di quell’epopea, lo stesso Josif ragazzo, sua madre… Sento che sto cominciando a entrare in questo complesso Paese, ma ecco che si aggiunge sempre qualcosa, un dettaglio, un incontro, a suggerire nuove chiavi di lettura. (Bisogna starci e poi starci e poi starci per capire un Paese e la sua gente: vorrei andare ancora più piano, perfino il mio andare a piedi mi sembra troppo veloce.) Si sommano i giorni, si confondono. Rimangono, luminosi, gli incontri con cose e persone.
L’antichissimo, piccolo monastero di San Giorgio a Ubiza con il pope che dopo aver recitato le sue preghiere e acceso per noi le luci affinché potessimo apprezzare gli affreschi si mette a spazzare il cortile.
Jorgi – chissà come si scrive – di Kashuri, a cui abbiamo chiesto passando un’informazione e finisce che ci troviamo nel giardino della sua casa a bere un tè con dolcetti con moglie, figlie e una quantità di parenti che si aggiungono via via, compresi quelli chiamati al telefono per una partecipazione virtuale all’evento. Il sorriso della donna ieri sera a Kareli in un locale spoglio che chiamano Fast food – l’unico posto dove potessimo trovare qualcosa per cena – che ci ha servito una sorta di focaccia con fagioli, e parlando italiano poiché ha lavorato in Italia tre anni si è illuminata nel dirci che ora è tornata a casa e ci resta. Il gesto improvviso con cui i due fornai, una donna a impastare, un uomo a infornare, intenti al lavoro in una piccola bottega ci hanno offerto un pane fragrante e caldo, seguito, poiché ci siamo subito buttate a sbocconcellarlo, da un pezzo di formaggio.
Il giovane pope di una chiesa incontrata uscendo stamani da Kareli che prima ci ha offerto tre candele a testa perché le accendessimo davanti alle icone, come si usa, e poi, dopo averci chiesto se avevamo bisogno di aiuto, ci ha rincorso mentre andavamo per darci una bottiglia da due litri di coca cola ma piena di vino: georgiano, ha specificato con orgoglio; ma no grazie, nello zaino non possiamo proprio… E i villaggi, e le persone al lavoro nei campi, e le case cadenti e quelle piene di vita, e gli scheletri di fabbriche di epoca sovietica in rovina, e i bambini che dicono hello… E, ovunque, i segni di una storia antica e dell’orgoglioso senso di appartenenza delle persone.
Giorno 35 – Mtskheta
Eccoci qui, nel cuore spirituale della Georgia, primo regno cristiano, convertita al cristianesimo nel terzo secolo per opera di santa Nino. Raccontano questa storia le antichissime chiese di Mtskheta, la impressionante Cattedrale Svetitskhoveli (significa palo che dà vita, c’è una bella storia al riguardo), che conserverebbe la tunica di Cristo, e la più intima e appartata chiesa di Samtavro, dove si trovano le tombe dei primi re georgiani convertiti al cristianesimo. Storie antiche e molto sentite. I fedeli e i visitatori si soffermano con devozione al cospetto delle icone, accendono candele, pregano. Io respiro ciò che riesco a cogliere di queste atmosfere che mi portano verso salti abissali nel tempo, qui il passato è tangibile e vivo. Siamo arrivate qui da Gori in due giorni di cammino attraverso belle campagne aperte.
Dopo l’uscita da Gori lungo la monumentale strada che conduce dritta dritta al mausoleo di Stalin, imponente ‘boulevar’ di impronta sovietica tra due cortine di bei palazzi brutalisti, siamo in campagna, su strade quasi deserte punteggiate da radi villaggi. Sosta goduriosa per una notte in un incongruo – dato il contesto – hotel spa dove ci siamo ben ben ricreate con sauna e idromassaggi, ideali per rimettere al mondo il viandante stanco….
Ci aspetta Tblisi: incredibile ma ci stiamo arrivando!
Giorno 37 – TBLISI!
Eccoci qui nella capitale, città sorprendente!
Lasciamo a malincuore la bella Mtskheta con un lungo giro per prendere uno dei due ponti di accesso, mentre la vista della cattedrale ci accompagna per un bel pezzo. E dopo un tratto su sterrati lungo il fiume eccoci di nuovo su una strada trafficata – ne avevamo perso l’abitudine. Con un tuffo al cuore leggo per la prima volta la destinazione Baku sui cartelli stradali: l’Azerbaijan si avvicina! Camion corrono non so dove poiché la frontiera terrestre con l’Azarbaijan è ancora chiusa. Molti camion fermi lungo la strada, non capisco come mai. Stanche, cerchiamo un posto dove sederci per una pausa ma non c’è nulla: passiamo davanti a una ditta di trasporti e ci mettono a disposizione due sedie nel cortile, poi ci offrono biscotti; sono azeri parlano turco o una lingua che gli somiglia.
Arriviamo presto all’inizio della lunga periferia di Tblisi: l’accesso a piedi una grande città più facile e piacevole che abbia mai incontrato, quasi tutto su piste ciclabili e attraverso giardini che affiancano la trafficata (molto trafficata) via a più corsie. L’ultimo tratto in metropolitana e siamo nel cuore di una città che ci appare bellissima e sorprendente: bella l’atmosfera che si respira, bella la città vecchia con le sue case storiche, alcune cadenti altre restaurate.
Incontriamo Nino, amica che ha vissuto in Italia e poi tornata qui a casa sua. Ci fa da guida preziosa in una intera giornata a bighellonare tra chiese antiche, case dai balconi ricamati in legno e ferro battuto, strade lastricate, le cupole in mattoni delle terme sulla sorgente di acque sulfuree… Tblisi conquista, ti entra negli occhi e nel cuore con i suoi contrasti, le sue bellezze, il coraggioso ottimismo dei suoi abitanti (che continuano ogni giorno a manifestare sotto il Parlamento per reclamare un futuro europeo), i segni evidenti del crocevia e crogiolo di culture che ha sempre caratterizzato la sua storia. Ci torneremo e ci staremo qualche giorno per esplorarla con calma, quando alla fine – quasi vicina! – del nostro cammino ripasseremo di qui per prendere il volo di ritorno. Intanto, qui immagini un po’ alla rinfusa, nello stesso spirito della nostra caotica prima esplorazione.